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lunedì 30 novembre 2015

Il mondo notturno

Il mio mondo notturno è frenetico, intenso, colorato.
È pieno di gente.
Certe mattine mi sveglio senza fiato ed ad occhi spalancati mi chiedo: ma come ci  sei arrivata?
Altre mattine stringo forte le palpebre per trattenere le ultime immagini vivide, piene di emozioni ed in genere è il volto di mia madre che lentamente svanisce per ultimo. Aspetta, aspetta ancora un attimo. Inesorabile la mente, come una maestrina indisponente, cancella la lavagna.
Allora mi alzo, in frettissima, dimenticandomi sempre che ho la pressione bassa e barcollo, in un nero popolato di stelline gialle, fino in bagno dallo Scettico.
Lo Scettico, credo discenda da una misteriosa razza di uomini pesce che prende energia dall'acqua, o forse, segue qualche strana religione new age dove il centro dell'energia cosmica si concentra nel soffione della doccia. Tra stelline e Scettico in meditazione trascendentale, raccolgo i cocci delle mie scorribande notturne e cerco di dare un filo logico alla storia. Non sempre ci riesco e lo capisco dai ahah, mhmh che escono dalla nuvola di vapore in cui si nasconde lo Scettico, o almeno credo.
Certo, molte volte le vicende della giornata influiscono sulla mia vita notturna, ad esempio la Haka di questa notte era sicuramente correlata allo splendido servizio visto ieri sera in onore di Lomu ma la maggior parte delle volte non c'è proprio nessun collegamento.
Come vi devo aver già tediato raccontato, è momento neonati e i piccoli, di tutte età e sesso, popolano allegramente i miei spazi onirici rendendo le altre avventure complicate. Da qui l'invenzione di questa notte della tasca in tessuto porta neonato per permettermi di fare una haka decente.
Scalare montagne, fare una gara di slalom gigante, inseguire assassini non sono attività compatibili con il bay sitteraggio ho scoperto, nemmeno nel mondo del tutto possibile.
Tutti i bimbi che ho riconosciuto li ho già inviati a destinazione dalle loro mamme e gradirei che chi ne cerca uno o più venisse presto a reclamarli, grazie. ( informazione di servizio)
Il mio mondo notturno può sembrare buffo ed incomprensibile ma mi regala momenti preziosi con le persone che, nel qui e adesso, non potrei abbracciare, persone lontane o persone partite per sempre che mi sorridono.
In un vortice di realtà e di impossibile raccolgo momenti straordinari che mi stupiscono e mi emozionano tanto da farmi svegliare con lacrime vere o ridere forte nel silenzio della notte.
Il mio mondo notturno è.
Ma devo anche raccontarvi che i giorni appena trascorsi sono stati ancora più magici delle mie notti. Finalmente tutti insieme, riuniti in una casa che lentamente sta prendendo il profumo di "casa" anche per loro che, essendo lontani la vivono di riflesso. Giorni sereni passati a cucinare, parlare, giocare con i miei bimbi diventati uomini ma che profumano di buono come quando erano piccoli. Ed io non smetterei mai di annusarli e di respirarli per trattenerli ancora qui.





giovedì 29 ottobre 2015

Sorelle

Ho ricevuto sul telefonino una lunga storia che parla di donne, un invito a guardare le altre donne come sorelle. Parole che mi hanno fatto riflettere, che mi hanno intenerito e fatto guardare intorno. Ho visto tanti volti e le ho contate con il cuore.
Sono figlia unica non consenziente, il che vuol dire che ho sofferto molto ad essere sola di fronte al mondo degli adulti.
L'amicizia, per me, era il solo modo per cercare un altro io bambino con cui parlare la stessa lingua. Quando si è piccoli, questo altro io bambino può essere di qualunque colore, rosa o azzurro, poco importa ma quando si cresce questo colore rosa diventa un segnale, una piccola bandiera.
Alle elementari c'era l'angolo bambine con tanto di elastico, salti e coreografie acrobatiche, c'era la corda da saltare e le bamboline tascabili che ripiegate stavano in cartella. I maschi invadevano il resto del mondo. Correvano, si spingevano, inciampavano volontariamente nel labirinto di elastici, ridevano e sapevano di terra e vento ma non si fermavano mai a parlare. Io, abituata al mondo dei grandi, volevo invece raccontare. Il rosa era più disponibile.
 Sedute sui gradini del cortile si intrecciavano capelli e storie, vere e inventate, si parlava di mamme e di fratellini (le più fortunate), di regali di Natale ad ottobre e si rideva dell'azzurro che era buffo e invadente.
Più  grandi, sempre sedute sui gradini di un mondo diventato difficile, si intrecciavano capelli e lacrime, si parlava di mamme e litigate, di cinema non concessi, di libri proibiti, di mascara rubati alle zie, di discoteche ( le più ardite) e si rideva dell'azzurro che era ancora buffo ma molto intrigante.
Un mondo di complicità colorato di rosa che purtroppo si assottigliava man mano che crescevi.
 Poco tempo per sederti sulle scale, forse.
 Ma camminando c'è sempre qualcuna che ha il tuo stesso passo e con cui puoi scambiare ancora parole anche se questo azzurro non è più buffo e si è ritagliato uno spazio enorme, si è rosicchiato parecchio rosa intorno e domina il tempo.
Poi ci sono gli anni in apnea. Quelli che passi correndo e ti manca il fiato per i momenti rosa e la frase ritornello è: ti racconterò ...
Le cose da raccontare si accumulano come i vestiti da stirare e chissà perché  le storie più rognose continuano a restare in fondo alla cesta, come le camicie plissettate e fai fatica a raccontarle anche ai tuoi ritagli rosa più cari.
Piano piano, rallenti, prendi fiato, vedi due gradini sulla strada e ti siedi un attimo.
Magari non ci sono più tanti capelli da intrecciare ma le storie non mancano e non occorre nemmeno inventarle perché la vita ha una fantasia inesauribile.
E si parla ancora di mamme che siamo diventate e di fratelli che sono cresciuti ( le più fortunate), di Natali complicati ma attesi con la stessa emozione, di figli che crescono, di corpi che cambiano e di questo azzurro che è sempre buffo ma tenero e che a raccontarcelo da una vita ha perso l'aspetto intrigante e misterioso.
Non potrei mai rinunciare ai miei momenti rosa anche perché sono figlia unica non consenziente e reclamo, forte e chiaro, il diritto alla sorellanza.
Una sorellanza che va costruita, protetta, difesa e rivendicata ad alta voce. Io ci credo.
E a tutte le mie sorelle che passeranno di qua e si riconosceranno senza esitazione regalo un sorriso...lo stesso che stai facendo tu.
Ti voglio bene.

martedì 13 ottobre 2015

Sedimenti

La vita è un gioco di ombre cinesi. Tu credi di vedere draghi e farfalle e invece sono solo mani rugose. Oppure vedi lupi cattivi e dietro hai le mani di un bambino.
La vita è un'ubriacatura dove non hai più il senso delle distanze, materiali ed emotive, tutto è esagerato e tutto ti colpisce. È un girotondo sempre più veloce che alla fine per forza devi buttarti per terra ma comunque ti viene da ridere.
La vita è una giornata lunga d'inverno e ti meravigli sempre di quanto presto viene la notte e a volte c'è pure la fregatura dell'ora legale per qualcuno.
La vita è un album di foto pieno di ricordi che ti fanno sorridere, pieno di ricordi belli e fermi, di facce che non ci sono più, di Natali senza profumo, di foto che vorresti strappare ma se alzi la plastica poi si rovinano tutte e allora ti devi tenere anche le foto brutte.
La vita è una tavola alla fine di una festa con bicchieri vuoti e briciole di pane che cercando di raccoglierle ti graffiano il palmo della mano e ti rendi conto che sono le cose più piccole  quelle che restano a grattuggiarti l'anima.
Questa vita è un minestrone di coincidenze e mentre allunghi il tuo piatto non puoi nemmeno scegliere se avere più carote o patate, speri solo di avere poco sedano. Poi ti siedi e mangi e sorridi pensando che forse è proprio il sedano che esalta il gusto del tutto.
Questa vita è una mattina d'autunno che non hai il coraggio di uscire e cerchi tutte le scuse, è una canzone tristissima che continui ad ascoltare per scaldarti gli occhi, è una nostalgia che sale e non trovi più niente per arginarla perché hai già usato tutti gli asciugamani vecchi e sporchi che avevi.
E allora sai che devi fare? Lasciare che esondi e goderti gli strani percorsi che sceglie di fare: anse, curve improvvise, pause e golfi. Un delta di nostalgia.
Ecco la vita è un delta di nostalgia.

giovedì 8 ottobre 2015

But your dreams may not...

Chissà se i miei sogni valgono qualcosa.
 Servono sicuramente ad annoiarvi  qui sul blog da molto tempo ma serviranno a qualcuno?
Camminavo in un buio vischioso questa notte e ogni tanto dalle tenebre usciva un bimbo che mi chiedeva dove doveva andare.
Io mi avvicinavo, lo guardavo negli occhi e gli sussurravo dove andare. O meglio da chi andare.
C'è stato un maschietto paffuto con occhi azzurri che profumava di biscotto ed io non ho avuto dubbi ad indicargli la strada. Poi una bimba dagli occhi profondi e neri che avevo già incontrato, tanti anni fa, in un bellissimo sogno. Lei l'ho mandata molto lontano ma se arriverà a destinazione ne sarò  felice.
Sono mesi ormai che sogno bambini piccoli,  rallegrano le mie notti e mi tengono impegnata. Molto probabilmente questa sindrome da nido vuoto ha degli strascichi lunghi, più lunghi del previsto.

Spesso, sveglia,  mi ritrovo a fare conti dolorosi e inutili e penso che potresti avere già  dieci anni  e che, se i sogni avessero un senso, adesso saresti qui a fare compiti in inglese ridendo della mia incapacità e sorridendo dei tuoi progressi e  sicuramente passeresti le serate al telefono con i tuoi fratelli lamentandoti con loro delle mie regole e  rigidità.
Ma i sogni non sempre seguono le strade giuste e a volte sono solo piccole finestrelle da dove puoi spiare spiragli di una felicità che non sarà mai.
Però vorrei  proprio che questo sogno avesse ali forti per volare lontano e che questi bimbi sognati entrassero, a piccoli passi, nei sogni di altre donne per diventare veri bimbi, profumati di biscotto.






lunedì 5 ottobre 2015

Ottobre rosa

Tutte le mattine indosso una vestaglia rosa. È una vestaglia di flanella rosa che incomincia ad avere qualche acciacco,  ha una sfilacciatura della tasca, il bordo con i punti  lenti e la chiusura difficile.
Quando la indossava lei, il rosa sembrava più intenso ed aveva sempre un profumo delicato, adesso è un po' sbiadita, come succede ai ricordi ma resiste ed io la curo perché ne ho bisogno.
La mia vestaglia è rosa perché questo era il suo colore preferito ma non è sdolcinata, anzi, il taglio è rigoroso, asciutto, lineare proprio come era lei.
Usava la vestaglia rosa come fosse uno scialle o come fosse uno scudo, dipendeva dalle situazioni. La indossava con piglio deciso se era una giornata difficile, infilando le maniche con gesti rapidi e bruschi. La vestaglia ubbidiva e accompagnava i movimenti, morbida e premurosa.
Nella serate malinconiche, aspettando la camomilla, la vestaglia si accoccolava sui piedi per darle conforto e conciliare il riposo. Nelle giornate buone veniva lasciata sul gancio del bagno, in attesa, mentre lei usciva e si indaffarava altrove.
Quando mamma se ne è andata, la vestaglia è rimasta, paziente, su un gancio del bagno ad aspettare. Ci sono voluti dei mesi prima che avessi il coraggio di prenderla.
Da allora condividiamo tutte le mattine e qualche serata solitaria anche se non è più tonica come un tempo  e il freddo del Michigan la mette a dura prova.
La mia vestaglia è rosa e nel mese di Ottobre è anche una bandiera per ricordare che è tempo di combattere e di non nascondere la testa sotto la sabbia della paura.
Perché solo chi è stato sul campo di battaglia, come lei, può infondere coraggio e spronare e sbarrare il passo a chi vorrebbe scappare come faccio io, a volte.
Quindi, ragazze, indossate la vostra vestaglia rosa e combattete facendo prevenzione.
La vestaglia ed io ve lo raccomandiamo.

mercoledì 30 settembre 2015

Una banda di italiani a Detroit, in purezza.

Giovani ma tosti, sembra una pubblicità ma è  semplicemente quello che sono i due ragazzi che riescono ad aggregare una banda di italiani a Detroit, in purezza.
È già trascorso un intero anno. Ed eccoci ancora tutti insieme, sempre più numerosi, tanti visi nuovi, ancora più bimbi, ancora più sorrisi. Focaccia e nutella per non dimenticare e hamburger per non restare sconnessi.
Le piccole ansie dell'anno scorso si sono dissipate e l'incontro con il gruppo è un ritrovarsi festoso, familiare.
Tutti arrivano con vassoi, sacchetti, contenitori, bottiglie, lattine in un allegro mercato che trasforma i tavoli in mense colorate. I bambini curiosano e gli adulti si presentano,  con una semplicità che solo i grandi cambiamenti regalano. Quando si viaggia veramente ci si libera di molti orpelli e di tante sovrastrutture, si scende dalle proprie sicurezze e ci si rimette in gioco. Ma è proprio allora che il gioco diventa più interessante.
 Consigli su visti, permessi, green card, vaccinazioni e trasformatori scivolano tra una birra e un hot dog.
Come è nato questo gruppo? Dalla convinzione che se sei in viaggio forse hai semplicemente bisogno di una mano, forse vuoi fare una domanda a qualcuno che ha fatto lo stesso sentiero prima di te o forse vuoi solo lanciare una voce ed è naturale che tutte queste esigenze le conosca meglio chi ha già passato le varie tappe dell'espatrio.
Allungare una mano sembra un gesto scontato ma farlo con spontaneità e con il sorriso non è da tutti ed è questo il segreto del successo di questo gruppo. Senza sovrastrutture e caselle, senza coni di direzione, senza programmi scritti.
Un senza che diventa contenitore attraente.
Perché alla fine, alla base di tutto c'è solo la voglia di condividere.
Ma come lo fanno Giorgio e Marianna è arte.

Ma adesso basta complimenti che poi i ragazzi mi ci si abituano e si montano la testa.

 Ps
Solo se verrà vietato per legge, decretata dal capo, di chiamarmi "signora" porterò ancora la nutella. Avvisati.




mercoledì 23 settembre 2015

Auguri al Tecnico del mio cuore.

Eccoci Tecnico.
Sono venticinque. Venticinque è un bel numero, non trovi?
Io ho amato moltissimo il mio venticinquesimo anno, a tal punto che  ho continuato a pensare di averne venticinque anche quando ero ormai prossima ai trenta. Volevo godermelo questo venticinque.
 È stato un anno felice per me: mi sono sposata, sei arrivato tu, ho cambiato casa, città e vita. Tutto durante il mio venticinquesimo anno.
Ci sono nella vita degli anni cardine, anni che non si possono dimenticare, mentre altri ci scivolano invece via, anonimi.
Che sei nato in una notte tempestosa lo sai, Tecnico, che non eri il bimbo più bello della nursery, lo sai, che eravamo in uno stanzone con altre cinque partorienti e che tu eri l'unico maschietto urlante, sai pure quello.
Non ti racconterò, invece, che mi sono innamorata di te appena ti ho tenuto tra le braccia, perché non è vero. Ero già innamorata di te da almeno sei mesi, da quando ti ho visto nella prima ecografia ed eri già un bimbo, anche se miniaturizzato.
 Il medico, un omone barbuto e di poche parole, dopo averti cercato un po' con la sonda dell'ecografo,  ha girato lo schermo verso di me e tu mi sei apparso. Le tue gambette si muovevano velocissime ed io, che non avevo idea di come dovesse essere un bimbetto a tre mesi di gestazione, mi sono spaventata.
Sta bene? Cos'ha? Ha paura?
Ma che paura, signora, ha spazio!

Dopo tutte le rassicurazioni e spiegazioni sono uscita con la tua foto sbiadita in mano e l'immagine di te che sgambettavi, fissa nella mia mente.
Pazzamente innamorata.
Tutto quello che è venuto dopo è stato solo una conferma, una certezza.
Io ero spazio per te, luogo sicuro, calore e casa e lo sarei stata per tutto il resto della mia vita.

Buon compleanno, Tecnico.

Murals in the market


Ho già scritto qui, diverse volte ormai, quanto sia importante per Detroit una rinascita. La voglia di cambiare direzione, di uscire dal vicolo cieco e di rimettersi in cammino è nell'aria. Si respira nelle strade del centro, si percepisce dai lavori di ristrutturazione di splendidi palazzi che escono dall'oblio e dal degrado. Ma quello che mi emoziona è la capacità di usare l'arte per questo risveglio.
Una specie di terapia cromatica di gruppo.
Ed ecco allora una settimana straordinaria in cui artisti di diverse parti del mondo convergono qui, a Detroit, nel quartiere del mercato per riempirlo di immagini, per trasformarlo, per fare alzare gli occhi e il viso alla gente che lì cammina, lavora, vive.
Energia e speranza. 
Che voglia di prendere una bomboletta e colorare anch'io un angolino.





 



 

 

 

sabato 8 agosto 2015

Lettura domenicale

     Gli occhi nella neve

Fosco non sapeva se fosse un buon segno o l'inizio di una catastrofe ma di sicuro sapeva che quando il prete saliva la strada con un passo veloce e tenendosi la tunica con tutte e due le mani c'era nella aria qualcosa.
- Buongiorno Don! - Gridò forte Fosco contro il vento che saliva dalla valle.
Il prete bofonchiò qualcosa e fece un cenno di saluto con la mano, senza quasi girare la testa. Continuò la strada a passo svelto con le spalle piegate da chissà quali pensieri. La strada dopo pochi metri si restringeva e diventava un sentiero che seguiva il saliscendi dei poggi.
Chissà dove stava andando don Aldo, si chiese Fosco, il sentiero portava in direzione della casa del pecoraio e poi si inerpicava verso l'ultimo paese della vallata ma ci voleva almeno un ora di buon cammino e poi a Figliano c'era già  don Giustino che diceva messa, tra un bicchiere e l'altro.
Fosco sorrise pensando a don Aldo.
Un brav'uomo, don Aldo, se non fosse stato per il vizio di saltare giù dalle finestre.
L'ultima volta, saltando, si era rotto un piede e le stampelle, con il loro cupo doppio tonfo sul selciato, avevano sottolineato per un paio di mesi la sua colpa, ad ogni passo trascinato. Era stato anche convocato dal Vescovo in città ed era tornato sobrio e serio. Le omelie della settimana seguente si erano stranamente popolate di angeli giustizieri, di fiamme calde dell'inferno e le anziane del paese avevano stretto il rosario tra le mani con più determinazione che durante il maggio.
Quel Berto lo aveva  capito subito che il don era saltato giù dalla sua camera da letto in quella primaverile  mattinata, la stessa  in cui  lui avrebbe dovuto essere a  Cadenzano, per delle carte, ma poi si era invece fermato troppo dal Gigante, a parlare di  quel terreno che voleva vendere e aveva deciso di rientrare a casa a mangiare un boccone, prima di andare nei campi. 
Gli era bastato guardare le guance arrossate di sua moglie agitata e  che parlava troppo forte in mezzo al gruppetto  delle donne. Tutte cercavano di aiutare il don che si contorceva per terra, sotto casa, sotto la finestra,  tutte tranne lei.
 E i due avevano certo sentito che  lui stava arrivando,  'chè in paese tutti si salutavano a voce alta e ogni volta che si incontravano, fosse stata anche la ventesima volta e ti chiedevano tutti dove andavi e cosa stavi facendo, tutte le volte, sempre.
E  così, mentre il Berto girava l'angolo della canonica per spuntare nello stradino di casa, la Maria  lo aveva visto e tutta allegra gli aveva buttato lì un bel:
- Oh Berto, dove vai? Visto che bel sole oggi?
Poi il tonfo, il grido soffocato e le grida delle donne alla fontana.
Tutto il resto era diventata storia da bar.
Fosco sorrise.
Il pennato tagliava metodico e il suono era quello giusto dato dalla filatura perfetta della lama. Ogni movimento preciso del polso corrispondeva ad una larga mezzaluna di erba che si reclinava sul terreno. Mezza luna dopo mezza luna Fosco andava veloce e preciso. Stava ancora sorridendo quando gli parve di udire un grido. Acuto, brevissimo.
Veniva dal paese. No. Lo aveva portato il vento, veniva dal sentiero. Forse qualcuno aveva fatto un grido per chiamare. No era troppo corto e spaventato. E se fosse stato don Aldo che era caduto, questa volta non da una finestra? Valeva la pena dare un'occhiata, pensò Fosco. Buttò il pennato sul mucchio di fieno e si avviò lentamente.
Le nuvole cariche di pioggia salivano in fretta dalla valle e lui pensò che se il don era caduto, magari per la caviglia ancora debole, si sarebbe preso un bello sguazzo a stare sul sentiero. Girò l'angolo della collina e si infilo nel sentiero sassoso incorniciato di cespugli di sorbo. Oltre i cespugli c'erano i terreni coltivati ma erano tutti deserti, vista l'ora.
Il sentiero era silenzioso fino alla curva e Fosco decise di arrivare fin là prima di chiamare.
C'era profumo di legna bruciata nell'aria e di funghi.
- Don Aldo?!
 Lo gridò senza convinzione. Era sicuro di aver male interpretato quel suono che già aveva perduto potenza nella sua mente. Forse qualche ragazzo in paese che faceva lo stupido, nient'altro. Una perdita di tempo.
- Oh, don Aldo! 
Stiracchiò ancora più la o per allungare la portata del richiamo.
Fatta la curva, il sentiero si apriva in un leggero slargo erboso dove, qualche decennio prima, mani e muscoli pietosi avevano costruito una piccola edicola dedicata alla Madonna. Appoggiato all'edicola, seduto a gambe larghe e con la testa ciondolante, stava don Aldo.
Fosco incominciò a correre, come corrono i contadini, con falcate lunghe ma poco veloci, mettendo i piedi nei posti giusti senza guardare. Mentre si piegava sul prete si accorse di uno strano odore di fiori, intenso e dolciastro e pensò che quello era l'odore del sangue dei religiosi.
Don Aldo, che vi è successo? Forza, svegliatevi!
Il prete pareva svenuto, era pallido e leggermente sudato. Fosco si tolse la fedele coppola che lo accompagnava ovunque e con quella in una mano si mise a fare aria al don mentre con l'altra gli dava ruvidi colpetti su una guancia.
Mi ha parlato...biascicò don Aldo, ancora con gli occhi chiusi.
Via! Apra gli occhi! La voce di Fosco tremava leggermente.
La Madonna...mi ha parlato. Adesso la voce era più chiara. Il don aprì gli occhi all'improvviso  e guardò Fosco con un'espressione allibita e quasi accusatoria.
L'hai fatta scappare tu!
Ma chi?
La Madonna, Fosco! Era qui e mi ha parlato.
Va bene, adesso alzatevi, forza.
Aiutato dalle forti braccia di Fosco, il prete si alzò e istintivamente si portò la mano alla testa, si guardò le dita, erano sporche di sangue.

La storia di don Aldo e della Madonna poteva essere semplice e banale se fosse rimasta confinata nella buia osteria del paese. Tra qualche bicchiere di vino e carte scurite di terra e di mosto, la storia del prete prese la via della burla e si spense in pochi giorni perché priva di particolari intriganti. La stessa storia si tinse di altri colori e pigliò un’altra proporzione nella stalla dove si riunivano le vicine di casa di Fosco. Ogni volta la narratrice aggiungeva alla storia dei particolari che riteneva importanti e certissimi e il dialogo tra i due uomini si dilatava. La visione della Vergine  si arricchiva di effetti speciali come nuvole, cerchi di luce e squilli di trombe. 
Le frequentatrici assidue della messa mattutina prestarono maggiore attenzione alle parole del parroco dopo “l’incidente”.
Fu così che egli stesso definì quello che era successo, “l’incidente”,  per sfuggire alle domande insistenti della perpetua e delle parrocchiane. 
La perpetua, era una donna alta e mascolina che non si era mai sposata e che aveva trascorso la sua vita a lucidare gli ottoni della chiesa, inamidare i centrini degli altari e vestire i santi per le processioni. Parlava poco e pareva sempre arrabbiata, attributo utilissimo per scacciare i mocciosi dal cortile della parrocchia armata di scopa e di grandi mani. Lei don Aldo lo conosceva bene. Conosceva i suoi calzini buttati sotto il letto, le sue sottane sporche di fango e il suo debole per le gonne. 
Sapeva dei suoi salti dalle finestre e dei bicchierini all’osteria ma conosceva anche la sua disponibilità, il suo intuito per le situazioni difficili in seno alle famiglie e l’abilità di aiutare senza mai essere invadente. Lui sapeva parlare con tutti senza barriere e si faceva voler bene.  Le sue omelie non erano dei capolavori di arte oratoria e cercando l’ispirazione le faceva praticamente tutte alla cieca. Chiudeva gli occhi, infatti e alzava il viso verso l’alto leggermente girato a sinistra verso l’altare di S. Michele e parlava così con gli occhi chiusi. Non aveva l’aria mistica ma sembrava piuttosto un bimbo che cercava di ricordarsi le tabelline. Faceva lunghe pause, talmente lunghe che a volte perfino la  vecchia Mirella alzava gli occhi dal rosario per vedere se era ancora lì. Tirando le somme il suo prete era un brav’uomo che guidava la sua comunità in modo corretto. 
L’incidente lo aveva scosso e aveva avuto un forte mal di testa per qualche giorno ma non voleva parlarne. 
- Don Aldo, si raccontano storie strane in paese - lo aveva incalzato una mattina presto in sacrestia.
- Lascia che raccontino- aveva risposto seccato.
- Forse, se lei dicesse come sono andate le cose, veramente, la gente smetterebbe di ricamarci sopra. 
- E come sono andate le cose, veramente? La guardò dritto negli occhi, a lungo, come mai aveva fatto.
- Non ho niente da dire, sono caduto e ho battuto la testa, cosa c’è da ricamare?
La perpetua ebbe la netta sensazione che quel giorno fosse stato proprio l’inizio dei guai che vennero in seguito.

La domenica successiva una giovane donna, non del paese, si sedette in fondo alla chiesa. Era pallidissima e il velo nero sui capelli raccolti sottolineava i tratti fini del volto. Finita la messa attese da sola don Aldo fuori dalla sacrestia tenendo tra le mani, con infinita cura, un tessuto ripiegato. Quando il prete uscì dalla piccola porticina verde e vide la donna che non conosceva, capì  subito che era lì per chiedere aiuto. Molte volte venivano da altre parrocchie per chiedere piccoli favori, lontano da occhi e orecchie indiscrete. A volte erano lettere da scrivere, altre erano piccoli aiuti economici, oppure erano liti da raccontare per avere un parere autorevole. Sorrise alla ragazza che si avvicinò a testa bassa. Quando fu vicina si inginocchio in fretta, raccolse il bordo della tunica e se la avvicinò  alle labbra  con tale fervore che don Aldo ne rimase meravigliato. Non era certo abituato a queste cose.
- Su, su non sono mica una reliquia! Cosa posso fare per te?
La ragazza invece di parlare allungò la stoffa ripiegata verso il parroco. 
- Beneditela Padre, è  la vestina di mio figlio, è malato e forse voi potete fare qualcosa, altrimenti sarà  già benedetta per il funerale.
Don Aldo non capiva, tutta questa strada per qualcosa che poteva tranquillamente fare il parroco del loro villaggio.
- Prese la vestina delicatamente  con la sinistra e con la mano destra fece sulla stoffa il segno della croce sussurrando le parole…in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti. Amen.
- Grazie Padre. Sussurrò la ragazza. 
Riprendendo la camicina  dalle mani del prete le trattenne nelle sue e le baciò entrambe. Strinse la vestina al seno e si avviò in fretta lungo la strada che attraversava il paese. Aveva una buona ora di cammino davanti nonostante le gambe giovani. 
Don Aldo restò sul sagrato a ripensare a quella strana visita. 
Poi l’odore del pranzo della domenica lo riportò alla realtà e si avviò veloce verso casa.


Due settimane dopo tutte le file di sedie in chiesa erano occupate e anche  il coro dietro l’altare rumoreggiava maggiormente. I due chierichetti erano particolarmente agitati e strattonavano i paramenti. Come sempre fu sufficiente alzare leggermente la voce per rimetterli al loro posto.
- Oh, ragazzi che c’è stamane? Mi sembrate un po’ troppo agitati! È tutto pronto?
- Sì don Aldo…libri, campanella, calice e ciotola. Rispose svelto il più grande.
- Ci sono tanti uomini nel coro, come se fosse festa grande, eh don Aldo? Chiese cantilenando il piccolino.
- Farà troppo freddo fuori sul sagrato… rispose il don sorridendo.
- No, la mamma ha detto che se la Madonna è venuta a trovarvi vuol dire o che siete proprio un gran peccatore o che siete un santo e che quindi è meglio venire ad ascoltarvi e ha detto al papà che era meglio che entrasse anche lui invece di parlare delle vigne fuori con gli altri. Che qualcosa di buono lo poteva, forse, imparare. Ma voi siete un santo, don Aldo?
- No Sandrino, non sono un santo. Dai sistematevi che iniziamo!

L’omelia fu più faticosa del solito. Le parole sfuggivano e non riusciva a trovare gli esempi giusti. Aprì gli occhi e abbassò lo sguardo verso le parrocchiane. Aspettavano.
Lo guardavano incuriosite e si aspettavano da lui chissà quale parola salvifica.
Cosa stava succedendo alla sua parrocchia sonnacchiosa?
Vicino all’altare di S.Michele, seduta in seconda fila, c’era la giovane donna della benedizione, gli sorrideva e stringeva tra le braccia forti un fagotto da cui spuntava una piccola testina. 

Finita la messa, fuori dalla porticina verde c’era un piccolo gruppo di donne e un omone con un cappello in mano. Ebbe la tentazione di rientrare in fretta in chiesa e di nascondersi dietro il coro ma lo avevano ben visto e i loro occhi erano carichi di una strana espressione, un misto di attesa, paura, rispetto. 
Avevano problemi diversi ma tutti legati alla salute, loro o di qualcuno restato a casa sdraiato in un letto. Tutti avevano portato un indumento o un oggetto. L’omone chiese di benedire una tazza.

Quel pomeriggio don Aldo non passò dal bar e decise invece di ritornare alla piccola edicola dove aveva avuto “l’incidente” e  da dove non era più passato. Camminò piano come se cercasse di rimandare l’incontro. Nello spiazzo erboso, l’edicola si ergeva piccola e dignitosa. Unica novità, rispetto al solito, una colorata raccolta di mazzolini, composti di fiori tardivi e foglie di castagno, allegramente accatastata  sul ripiano dell’edicola a nascondere, quasi,  la figura della Vergine. Si avvicinò e appoggiò la mano al tetto del tabernacolo. Freddo. Cosa si aspettava?
 Non si ricordava niente di quel giorno, era stato Fosco a raccontargli di averlo visto passare sul sentiero, di aver sentito un grido e le frasi strane che aveva detto risvegliandosi. Lui non si ricordava nemmeno perché era andato da quelle parti. Non aveva parrocchiani da andare a trovare quel giorno, non aveva niente da fare in quella parte del paese mentre aveva invece disertato stranamente un appuntamento con le parrocchiane per il piccolo coro. 
Lui non ricordava niente.
Si accovacciò davanti all’immagine e spostò delicatamente i fiori per guardare in volto la Madonna. 
Il pittore aveva dipinto frettolosamente il vestito e il velo che ricadeva in grosse pieghe pesanti e irreali. Anche il bimbo che teneva in braccio non era stato ben dipinto e il piccolo volto paffuto era leggermente asimmetrico, sgraziato. Entrambi guardavano intensamente dritto davanti ed entrambi non sorridevano. Il viso della Vergine era invece straordinariamente proporzionato e delicato. Gli occhi erano intensi e cercavano un dialogo con gli occhi di chi guardava. Forse erano stati due artisti a dipingere, un maestro e un allievo, forse. Don Aldo sorrise. Non si era mai soffermato molto davanti al tabernacolo. Era fuori dai soliti percorsi, non faceva parte di nessuna processione e nemmeno nel mese di maggio era un punto di preghiera.
Si lasciò catturare dagli occhi della Vergine e si mise a pregare.

Faceva quasi buio quando don Aldo, infreddolito, spinse la porta di casa. Era affamato e stanco. Si tolse il mantello e lo appoggiò sulla sedia, unico arredo della stretta entrata. La perpetua gli aveva lasciato la cena sul tavolo della cucina e il camino era acceso. Chiuse la porta per scaldarsi, aveva mani e piedi gelati. Si sedette e si fece il segno della croce prima di toccare il pane. Nella stanza c’era odore di fumo e di minestrone.
Si versò un bicchiere di vino. Era un vino scuro, acido e che gli faceva venire un noioso bruciore allo stomaco ma lo confortava e gli riempiva la bocca e il cuore. 
Dopo tre cucchiai di minestra e due bicchieri di vino, quando un certo benessere incominciava ad infiltrarsi nelle ossa, fu spaventato da colpi fortissimi dati alla sua porta.
- Don Aldo! Don Aldo!
La porta della cucina si spalancò e Fosco entrò stravolto.
- Don Aldo…Renata!

La bambina era sdraiata sul tavolo della cucina e il colore del viso non lasciava ben sperare. I capelli, in parte bagnati di acqua e sangue, erano incollati al viso e i piedini sporchi erano abbandonati come se dormisse. 
Correndo verso la casa il padre aveva raccontato della caduta della figlia dal muretto del fondo. Giocava, don Aldo, giocava con quello stupido gatto.
- Hai chiamato il medico? 
È andato il  mio Livio ma ci vorranno almeno due ore, sempre che lo trovi. C’è bisogno di lei, don.
Mentre saliva verso la parte alta del paese si rese conto di non avere con se i paramenti sacri. Adesso, vicino alla bimba, si sentiva inadeguato e impotente. Tutti gli occhi erano puntati su di lui tranne quelli della madre che si copriva il volto con il grembiule e le mani come per nascondere quello che stava succedendo.
Si avvicinò alla bimba, prese tra le mani i suoi piedini. Freddi. Si mise a massaggiarli per scaldarglieli. 
Portate una coperta! Disse guardando la bambina. Non sopportava più tutto questo freddo. Una delle sorelle portò correndo una coperta enorme e la diede al prete. Nessuno toccava la bimba come se già fosse morta. Decise di avvolgerla e per farlo le sollevo il busto circondandola con le braccia. Aveva un taglio dietro l’orecchio ma il sangue aveva già smesso di uscire e si era formato un grosso grumo scuro. Decise di prenderla in braccio per meglio avvolgerla e appoggiò con delicatezza la testa bagnata sulla spalla. Adesso era completamente avvolta nella pesantissima coperta tessuta certamente da qualche nonna o zia. La coperta toccava il pavimento e don Aldo restò in piedi con il peso della bimba sul suo avambraccio sinistro. Con la mano destra segnò la fronte con un piccolo segno della croce…
in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti. Amen.
Quando arrivò il medico condotto, con la sua borsa pesante, la bambina era già in braccio a sua madre e si guardava intorno spaventata ma sveglia.

Nella casa di Fosco ci fu una settimana di follia, lui, dopo una iniziale resistenza abdicò completamente e cercò di stare in casa il meno possibile. Purtroppo la campagna richiedeva poche attenzioni in questo periodo dell’anno ma c’erano mille e mille altre cose da fare, per fortuna. Non poteva  più sopportarle tutte queste donne che si fermavano ed entravano in casa per farsi raccontare ancora e ancora tutto quello che era successo ed era stato detto e fatto nella sua cucina. Anche sua moglie, che normalmente era una donna concreta e di poche parole, si era lasciata coinvolgere in questa pazzia collettiva e parlava, parlava, aggiungeva, aggiungeva.
Una sera, sdraiati nel grande letto con il materasso scricchiolante di foglie di mais, Fosco cercò di riportare le cose alla giusta dimensione. 
- Mi pare che stiate esagerando. Disse piano nel buio.
La moglie non rispose. Ne percepiva la tensione dalla mancanza di movimenti.
- Tenete calme tutte queste donne. Non è successo niente di straordinario,  lo ha detto anche don Aldo.
- È stato un miracolo. Rispose lei secca.
- È stata fortuna, una grande fortuna.
- Allora don Aldo incontra tante persone fortunate in questo periodo. 
Sua moglie fece uno strano suono con le labbra, come un sbuffo, per sottolineare quanto trovava assurde le parole del marito. Si girò sul fianco in modo brusco. La conversazione era terminata.
Fosco fece sogni strani quella notte. Era vicino all’edicola della Madonnina ma l’immagine era scomparsa. Nevicava in grandi fiocchi che danzavano nel vento prima di posarsi leggeri. Faceva freddo, molto freddo. Poi era comparsa Renata, sorridente che lo salutava con la manina, scalza nella neve e con i capelli bagnati. Alla base dell’edicola, adesso, c’era una grande macchia di sangue che si allargava piano nella neve. Fosco sapeva che doveva fare qualcosa ma non riusciva a muoversi. Poi era arrivato Livio, il figlio maggiore, serio come sempre, con il gattino di Renata, lo teneva per la coda, spenzolante, morto.


Fu convocato dal Vescovo. Erano passati due anni dall’ultima chiamata e non era certo stato un incontro piacevole. Mentre si vestiva quella mattina, in un freddo pungente, era inquieto e da un paio di giorni il suo stomaco  si faceva sentire con un gran bruciore che saliva fino al petto. Aveva detto la messa della mattina nella piccola cappella, come sempre, ma le donne erano numerose e si erano strette e sistemate anche lungo i bordi. Rimpiangeva le messe praticamente deserte di un tempo. Un tempo. Erano passati solo quattro mesi da quello strano giorno ma era come fosse passata un’eternità. Tante cose erano cambiate. La gente lo trattava in modo diverso, gli parlava in modo diverso e le sue giornate erano piene di persone da incontrare, consigli da dare. La Perpetua cercava di fare da filtro e scoraggiava quelli che arrivavano per semplice curiosità o piccoli problemi che assomigliavano a scuse.
 Dopo due ore di viaggio, di cui la metà a piedi, arrivò dal Vescovo all’ora di pranzo. 
La sede vescovile era una grande casa signorile che si ergeva, centrale, nella piazza della cittadina. Due imponenti telamoni sorreggevano con  grande fatica l’architrave dell’entrata principale e il loro sguardo era truce. Non erano mai piaciuti a don Aldo quei due guardiani seminudi eppure ogni volta li osservava affascinato e ogni volta ne scopriva un dettaglio  nuovo. Il giovane prete che lo accolse ai piedi dello scalone era nuovo, magro magro e leggermente ricurvo, aveva l’aria di chi ha studiato tanto. Sorrideva timido ma la stretta di mano era decisa e sicura.
- Benarrivato don Aldo. Sua Eccellenza la sta aspettando.
Salirono silenziosi i gradini di pietra. Il Vescovo era seduto dietro la grande scrivania e stava leggendo con una lente di ingrandimento qualche documento. Alzò la testa sentendo il rumore dei passi. 
Riprovazione. Ecco quello che lesse negli occhi del Vescovo quando si appoggiarono ai suoi.
Senza parlare il Vescovo allungò la mano per permettergli di fare il gesto dovuto e sempre senza parlare gli fece segno di sedersi.
- Non posso lasciare andare questa storia, don Liberti. Cosa mi combina, ancora?

Don Aldo parlò pochissimo e le poche parole furono quasi tutte dedicate al racconto di quella strana sera in cui era svenuto vicino al tabernacolo della Vergine.
 Parlò dell’amnesia della giornata e delle strane parole che aveva detto quando si era ripreso. Aveva cercato di spiegare a sua Eccellenza che tutto era nato dalle chiacchiere delle parrocchiane. Alla parola “parrocchiane” c’era stato un leggero movimento di sopracciglia da parte del Vescovo che aveva una buona memoria e che non aveva nemmeno quella volta apprezzato le scuse del suo parroco. 
- Lei ha la straordinaria capacità di cacciarsi nei guai, don Liberti e di crearmi guai, pure. Ma questa volta le voci sono arrivate ancora più in alto. Lei sa quali sono le nostre linee guida per quanto riguarda questi delicatissimi argomenti, vero? Prudenza, rigore, preghiera ma soprattutto prudenza. Deve tenere calmi i suoi parrocchiani e deve essere più rigoroso, caro don Liberti.”
Le linee guida furono molto lunghe e anche i consigli e le raccomandazioni. 

Era proprio stanco mentre risaliva verso il paese, si sentiva svuotato di ogni energia e a differenza della precedente romanzina, questa sentiva di non meritarsela.  Gli ultimi mesi erano stati forse i mesi più intensi della sua vita di religioso, aveva avuto la sensazione di dare qualcosa, di essere un vero pastore per il suo piccolo gregge e per la prima volta si sentiva all’altezza del suo incarico. 
Pregava con maggiore energia e convinzione e meditava molto di più durante la giornata. L’inquietudine che lo attanagliava normalmente lo aveva quasi del tutto abbandonato e la sera si addormentava sereno. Dove aveva sbagliato? 
Si alzò di cattivissimo umore la mattina seguente, iniziò con un piccolo battibecco con la perpetua, fece una brusca omelia alle mattiniere parrocchiane e si defilò dalle richieste di consigli che riempivano ormai le sue mattinate. Si diresse verso il tabernacolo, aveva bisogno di riflettere.
Scendevano rari fiocchi asciutti di neve e il cielo era grigio blu, si era avvolto nel mantello pesante e si era messo un cappello di lana nero. Scelse un sentiero che tagliava fuori il paese per incontrare meno parrocchiani possibile e ai pochi che incrociò fece veloci cenni di capo senza raccogliere i loro inviti a scambiare due chiacchiere. Quando raggiunse l’edicola la neve incominciava a coprire con un leggero strato bianco il tettuccio della piccola costruzione, avvicinandosi fu avvolto da un profumo intenso di fiori. Abbassò lo sguardo sui vecchi mazzolini portati negli ultimi giorni e che ormai giacevano secchi e sicuramente non profumati, semi nascosti dalla neve. Eppure il profumo era fresco e dolciastro come quello dei mazzi estivi della sua perpetua. Più si avvicinava e più il profumo lo invadeva diventando quasi nauseante. Ebbe un giramento di testa e si dovette appoggiare completamente all’edicola. Forse era questo che era successo quel giorno - pensò.
Cosa vuoi? La sua voce risuonava strana nella neve. Compatta e cupa.
A chi parlava? Si chiese.
Si sedette piano per terra con la schiena appoggiata al tabernacolo, le spalle alla Vergine.
Vuoi punirmi? Ho peccato, lo sai e ho chiesto perdono troppe volte, sai anche questo.
I fiocchi di neve si posavano sul mantello nero come magici decori, in un attimo sparivano lasciando un piccolissimo alone. Non nevicava spesso da quelle parti ma quando accadeva lo spettacolo degli ulivi imbiancati aveva il potere di renderlo allegro e spensierato come un bambino. Ma non oggi.
Aveva voglia di piangere invece.
Non piangeva da tanti anni, da quando era uscito dal seminario, forse. Non aveva pianto nemmeno per lei, nemmeno davanti al suo corpo composto e severo adagiato sul letto. Era arrivato tardi e lei se ne stava lì, imbronciata, con un rosario tra le mani magre e il velo intorno al volto, come fosse in chiesa. Certo, le lacrime erano salite come un ruscello verso gli occhi pronte ad uscire ma quando l’aveva toccata tutto si era fermato, bloccato, indurito, come era lei. Le immagini di lei sulla porta di casa che si asciugava le mani nel grembiule stropicciato con i suoi occhi neri senza calore che lo guardavano partire verso il seminario, lei che scrutava le sue lacrime di bambino senza commozione, quasi con fastidio, lei che aveva un brutto odore e che non lo aveva nemmeno baciato quel giorno, quasi non fosse più suo figlio ma un estraneo da tenere sulla porta. Queste immagini gli giravano in testa e come aveva voluto lei non era più il figlio accanto al letto ma il prete che recitava le preghiere dovute per una vecchia, per i suoi figli, per i suoi nipoti.
Nessuna lacrima e tante parole di speranza e conforto, per gli altri.
Non sentiva più le gambe, il freddo si stava infilando sotto i vestiti. Doveva alzarsi ma le gambe erano molli come anche le braccia ed era così stanco. Si mise lentamente a carponi e poi in ginocchio.
Occhi negli occhi.
Eccoti qui. Parliamo un po’ tu ed io.
Sono un misero prete con pochissimi meriti e molti peccati. Ma tu puoi aiutarmi. Cosa devo fare?
Gli occhi della Vergine erano due pozzi scuri dove gettarsi in caduta libera ed essere salvato. Erano tutti gli occhi delle donne che aveva usato e in cui aveva cercato di perdersi. I volti di quelle donne ora si confondevano, si deformavano fino a diventare il volto del piccolo dipinto. Tutti i momenti in cui aveva peccato si mescolavano in un solo momento di perdizione ed era come un vortice che lo stava trascinando in un pozzo.
Lasciati andare, lasciati cadere, solo perdendoti completamente ti salverai.

Ci mise moltissimo a tornare in canonica, faceva fatica a muovere le gambe che erano diventate pesanti. Mentre passava sotto la casa di Fosco sentì la vocina acuta e squillante di Renata che lo salutava e alzando gli occhi la vide in piedi sul muro dell’orto che faceva ciao con la manina, rispose facendo ciao con la mano ma la voce non voleva uscire. Si sarebbe messo subito a letto, pensò, aveva preso freddo in mezzo alla neve. Faceva quasi buio ormai, vicino alla piazza incrociò la Mirella che risaliva verso casa recitando il rosario e le sussurrò un buonasera ma la donna non girò il capo come  se non si fosse nemmeno accorta della sua presenza. In mezzo alla piazza si fermò a guardare il cielo che adesso era terso e di un colore viola intenso. Era un mantello di velluto che si stava srotolando sopra il paese come per proteggerlo, il mantello della Vergine, che strana immagine gli era venuta in mente, pensò che forse aveva una leggera febbre, doveva mettersi a letto. Si accorse in quel momento che la porta della piccola cappella, quella delle messe mattutine, era aperta. Forse la perpetua faceva pulizie serali. Entrò piano senza far cigolare la porta. Tutto era a posto nella piccola chiesetta ad una navata, le pareti laterali erano semplicemente pitturate di bianco e gli unici arredi erano delle sedie impagliate, un piccolo altare di marmo e un crocifisso. A metà navata c’era una donna seduta, schiena dritta e occhi verso il Cristo, la chiesa era praticamente immersa nel buio. Don Aldo percorse la navata e si fermò a fianco della donna, le guance  erano rigate di lacrime, le mani si strofinavano nervosamente in grembo. C’era un alone di sofferenza intorno a quella donna, la osservò meglio e solo in quel momento si rese conto di conoscerla, era la nipote della sua perpetua, quella che non riusciva ad avere figli. Don Aldo si sentiva stanchissimo, voleva tornare a casa ma doveva fare qualcosa, dirle due parole. Si sedette nella fila davanti a lei e percepì subito uno strano calore che  veniva dalla donna, un calore piacevole come se si fosse seduto vicino alla stufa della cucina. Che strana sensazione, pensò. Era una strana serata quella. La ragazza adesso teneva il viso basso e si asciugava le lacrime con il dorso della mano. Don Aldo allungò il braccio e le accarezzò la guancia vellutata e umida. 
Andrà tutto bene - le sussurrò con una voce ormai roca e faticosa- il bimbo arriva presto, ne sono sicuro.  Lei sorrise guardandosi le mani. Anche don Aldo sorrise.
 Mentre usciva dalla chiesetta ormai buia ebbe la sensazione di non essere sola, aveva il cuore leggero e la preghiera l’aveva proprio aiutata.

Quando Fosco salì il sentiero con la fascina di legna sulla spalla, la neve aveva smesso di cadere e la luce intensa del pomeriggio giocava con il bianco e il verde della campagna.
Pensò ad un cane accucciato vicino al tabernacolo e sorrise pensando che perfino gli animali si erano lasciati prendere da quella follia mistica che aveva invaso le donne del paese.
Poi vide che era del tessuto, poi vide che era un uomo e infine si accorse che era don Aldo.









venerdì 7 agosto 2015

Inserto estivo

Estate, vacanze, tempo libero, voglia di leggere...
Una volta quando si comperavano i giornali, quelli con l'odore di inchiostro, spesso d'estate ci si trovava in mezzo l'inserto culturale. Un paio d'ore di lettura di facile manipolazione. Finita la giornata l'inserto era ridotto ad un insieme di pieghe, olio solare, sabbia e parole già dimenticate ma nel tempo di mezzo, quello tra l'odore di stampa fresca e il cestino della spiaggia, restava il piacere di aver vissuto qualche avventura o aver conosciuto nuovi personaggi o aver viaggiato in luoghi lontani.
Ora, dimenticando l'odore di inchiostro che tanto lo so che leggete tutti i tablet,  l'inserto lo offro io e visto che il mio concorsino è ufficialmente chiuso,  invece che metterlo nel cassetto il mio racconto lo sottopongo al giudizio dei miei  affezionati lettori ( 'chè se passate di qui in Agosto affezionati lo siete di sicuro!)
Lo posterò in due puntate per tenere viva la vostra attenzione, spero e per darvi il tempo di affezionarvi al mio personaggio. Un personaggio a metà tra realtà e finzione, nato come esercizio di un piccolo corso di scrittura fai da te, che ha ormai uno spazio nel mio cuore.
Leggendo qualcuno potrà riconoscere i luoghi dove la storia si svolge e potrà anche riconoscere certi personaggi, io ho passato ore deliziose a farli muovere nella mia fantasia e ad immaginarli reali e vivi.
Buona lettura.


                                                     Gli occhi nella neve


Fosco non sapeva se fosse un buon segno o l'inizio di una catastrofe ma di sicuro sapeva che quando il prete saliva la strada con un passo veloce e tenendosi la tunica con tutte e due le mani c'era nella aria qualcosa.
- Buongiorno Don! - Gridò forte Fosco contro il vento che saliva dalla valle.
Il prete bofonchiò qualcosa e fece un cenno di saluto con la mano, senza quasi girare la testa. Continuò la strada a passo svelto con le spalle piegate da chissà quali pensieri. La strada dopo pochi metri si restringeva e diventava un sentiero che seguiva il saliscendi dei poggi.
Chissà dove stava andando don Aldo, si chiese Fosco, il sentiero portava in direzione della casa del pecoraio e poi si inerpicava verso l'ultimo paese della vallata ma ci voleva almeno un ora di buon cammino e poi a Figliano c'era già  don Giustino che diceva messa, tra un bicchiere e l'altro.
Fosco sorrise pensando a don Aldo.
Un brav'uomo, don Aldo, se non fosse stato per il vizio di saltare giù dalle finestre.
L'ultima volta, saltando, si era rotto un piede e le stampelle, con il loro cupo doppio tonfo sul selciato, avevano sottolineato per un paio di mesi la sua colpa, ad ogni passo trascinato. Era stato anche convocato dal Vescovo in città ed era tornato sobrio e serio. Le omelie della settimana seguente si erano stranamente popolate di angeli giustizieri, di fiamme calde dell'inferno e le anziane del paese avevano stretto il rosario tra le mani con più determinazione che durante il maggio.
Quel Berto lo aveva  capito subito che il don era saltato giù dalla sua camera da letto in quella primaverile  mattinata, la stessa  in cui  lui avrebbe dovuto essere a  Cadenzano, per delle carte, ma poi si era invece fermato troppo dal Gigante, a parlare di  quel terreno che voleva vendere e aveva deciso di rientrare a casa a mangiare un boccone, prima di andare nei campi. 
Gli era bastato guardare le guance arrossate di sua moglie agitata e  che parlava troppo forte in mezzo al gruppetto  delle donne. Tutte cercavano di aiutare il don che si contorceva per terra, sotto casa, sotto la finestra,  tutte tranne lei.
 E i due avevano certo sentito che  lui stava arrivando,  'chè in paese tutti si salutavano a voce alta e ogni volta che si incontravano, fosse stata anche la ventesima volta e ti chiedevano tutti dove andavi e cosa stavi facendo, tutte le volte, sempre.
E  così, mentre il Berto girava l'angolo della canonica per spuntare nello stradino di casa, la Maria  lo aveva visto e tutta allegra gli aveva buttato lì un bel:
- Oh Berto, dove vai? Visto che bel sole oggi?
Poi il tonfo, il grido soffocato e le grida delle donne alla fontana.
Tutto il resto era diventata storia da bar.
Fosco sorrise.
Il pennato tagliava metodico e il suono era quello giusto dato dalla filatura perfetta della lama. Ogni movimento preciso del polso corrispondeva ad una larga mezzaluna di erba che si reclinava sul terreno. Mezza luna dopo mezza luna Fosco andava veloce e preciso. Stava ancora sorridendo quando gli parve di udire un grido. Acuto, brevissimo.
Veniva dal paese. No. Lo aveva portato il vento, veniva dal sentiero. Forse qualcuno aveva fatto un grido per chiamare. No era troppo corto e spaventato. E se fosse stato don Aldo che era caduto, questa volta non da una finestra? Valeva la pena dare un'occhiata, pensò Fosco. Buttò il pennato sul mucchio di fieno e si avviò lentamente.
Le nuvole cariche di pioggia salivano in fretta dalla valle e lui pensò che se il don era caduto, magari per la caviglia ancora debole, si sarebbe preso un bello sguazzo a stare sul sentiero. Girò l'angolo della collina e si infilo nel sentiero sassoso incorniciato di cespugli di sorbo. Oltre i cespugli c'erano i terreni coltivati ma erano tutti deserti, vista l'ora.
Il sentiero era silenzioso fino alla curva e Fosco decise di arrivare fin là prima di chiamare.
C'era profumo di legna bruciata nell'aria e di funghi.
- Don Aldo?!
 Lo gridò senza convinzione. Era sicuro di aver male interpretato quel suono che già aveva perduto potenza nella sua mente. Forse qualche ragazzo in paese che faceva lo stupido, nient'altro. Una perdita di tempo.
- Oh, don Aldo! 
Stiracchiò ancora più la o per allungare la portata del richiamo.
Fatta la curva, il sentiero si apriva in un leggero slargo erboso dove, qualche decennio prima, mani e muscoli pietosi avevano costruito una piccola edicola dedicata alla Madonna. Appoggiato all'edicola, seduto a gambe larghe e con la testa ciondolante, stava don Aldo.
Fosco incominciò a correre, come corrono i contadini, con falcate lunghe ma poco veloci, mettendo i piedi nei posti giusti senza guardare. Mentre si piegava sul prete si accorse di uno strano odore di fiori, intenso e dolciastro e pensò che quello era l'odore del sangue dei religiosi.
Don Aldo, che vi è successo? Forza, svegliatevi!
Il prete pareva svenuto, era pallido e leggermente sudato. Fosco si tolse la fedele coppola che lo accompagnava ovunque e con quella in una mano si mise a fare aria al don mentre con l'altra gli dava ruvidi colpetti su una guancia.
Mi ha parlato...biascicò don Aldo, ancora con gli occhi chiusi.
Via! Apra gli occhi! La voce di Fosco tremava leggermente.
La Madonna...mi ha parlato. Adesso la voce era più chiara. Il don aprì gli occhi all'improvviso  e guardò Fosco con un'espressione allibita e quasi accusatoria.
L'hai fatta scappare tu!
Ma chi?
La Madonna, Fosco! Era qui e mi ha parlato.
Va bene, adesso alzatevi, forza.
Aiutato dalle forti braccia di Fosco, il prete si alzò e istintivamente si portò la mano alla testa, si guardò le dita, erano sporche di sangue.

La storia di don Aldo e della Madonna sarebbe rimasta semplice e banale se fosse rimasta confinata nella buia osteria del paese. Tra qualche bicchiere di vino e carte scurite di terra e di mosto la storia del prete prese la via della burla e si spense in pochi giorni perché priva di particolari intriganti. La stessa storia prese  invece altri colori e un’altra proporzione nella stalla dove si riunivano le vicine di casa di Fosco. Ogni volta la narratrice aggiungeva alla storia dei particolari che riteneva importanti e certissimi e il dialogo tra i due uomini si dilatava. La visione della Vergine  si arricchiva di effetti speciali come nuvole, cerchi di luce e squilli di trombe. 
Le frequentatrici assidue della messa mattutina prestarono maggiore attenzione alle parole del parroco dopo “l’incidente”.
Fu così che egli stesso definì quello che era successo, “l’incidente”,  per sfuggire alle domande insistenti della perpetua e delle parrocchiane. 
La perpetua, era una donna alta e mascolina che non si era mai sposata e che aveva trascorso la sua vita a lucidare gli ottoni della chiesa, inamidare i centrini degli altari e vestire i santi per le processioni. Parlava poco e pareva sempre arrabbiata, attributo utilissimo per scacciare i mocciosi dal cortile della parrocchia armata di scopa e di grandi mani. Lei don Aldo lo conosceva bene. Conosceva i suoi calzini buttati sotto il letto, le sue sottane sporche di fango e il suo debole per le gonne. 
Sapeva dei suoi salti dalle finestre e dei bicchierini all’osteria ma conosceva anche la sua disponibilità, il suo intuito per le situazioni difficili in seno alle famiglie e l’abilità di aiutare senza mai essere invadente. Lui sapeva parlare con tutti senza barriere e si faceva voler bene.  Le sue omelie non erano dei capolavori di arte oratoria e cercando l’ispirazione le faceva praticamente tutte alla cieca. Chiudeva gli occhi, infatti e alzava il viso verso l’alto leggermente girato a sinistra verso l’altare di S. Michele e parlava così con gli occhi chiusi. Non aveva l’aria mistica ma sembrava piuttosto un bimbo che cercava di ricordarsi le tabelline. Faceva lunghe pause, talmente lunghe che a volte perfino la  vecchia Mirella alzava gli occhi dal rosario per vedere se era ancora lì. Tirando le somme il suo prete era un brav’uomo che guidava la sua comunità in modo corretto. 
L’incidente lo aveva scosso e aveva avuto un forte mal di testa per qualche giorno ma non voleva parlarne. 
- Don Aldo, si raccontano storie strane in paese - lo aveva incalzato una mattina presto in sacrestia.
- Lascia che raccontino- aveva risposto seccato.
- Forse se lei dicesse come sono andate le cose, veramente, la gente smetterebbe di ricamarci sopra. 
- E come sono andate le cose, veramente? La guardò dritto negli occhi, a lungo, come mai aveva fatto.
- Non ho niente da dire, sono caduto e ho battuto la testa, cosa c’è da ricamare?
La perpetua ebbe la netta sensazione che quel giorno fosse stato proprio l’inizio dei guai che vennero in seguito.

La domenica successiva una giovane donna, non del paese, si sedette in fondo alla chiesa. Era pallidissima e il velo nero sui capelli raccolti sottolineava i tratti fini del volto. Finita la messa attese da sola don Aldo fuori dalla sacrestia tenendo tra le mani, con infinita cura, un tessuto ripiegato. Quando il prete uscì dalla piccola porticina verde e vide la donna che non conosceva, capì  subito che era lì per chiedere aiuto. Molte volte venivano da altre parrocchie per chiedere piccoli favori, lontano da occhi e orecchie indiscrete. A volte erano lettere da scrivere, altre volte erano piccoli aiuti economici, oppure erano liti da raccontare per avere un parere autorevole. Sorrise alla ragazza che si avvicinò a testa bassa. Quando fu vicina si inginocchio in fretta, raccolse il bordo della tunica e se la avvicinò  alle labbra  con tale fervore che don Aldo ne rimase meravigliato. Non era certo abituato a queste cose.
- Su, su non sono mica una reliquia! Cosa posso fare per te?
La ragazza invece di parlare allungò la stoffa ripiegata verso il parroco. 
- Beneditela Padre, è  la vestina di mio figlio, è malato e forse voi potete fare qualcosa, altrimenti sarà  già benedetta per il funerale.
Don Aldo non capiva, tutta questa strada per qualcosa che poteva tranquillamente fare il parroco del loro villaggio.
- Prese la vestina delicatamente  con la sinistra e con la mano destra fece sulla stoffa il segno della croce sussurrando le parole…in nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti. Amen.
- Grazie Padre. Sussurrò la ragazza. 
Riprendendo la veste  dalle mani del prete le trattenne nelle sue e le baciò entrambe. Strinse la vestina al seno e si avviò in fretta lungo la strada che attraversava il paese. Aveva una buona ora di cammino davanti nonostante le gambe giovani. 
Don Aldo restò sul sagrato a ripensare a quella strana visita. 
Poi l’odore del pranzo della domenica lo riportò alla realtà e si avviò veloce verso casa.


Due settimane dopo tutte le file di sedie in chiesa erano occupate e anche  il coro dietro l’altare rumoreggiava maggiormente. I due chierichetti erano particolarmente agitati e strattonavano i paramenti. Come sempre fu sufficiente alzare leggermente la voce per rimetterli al loro posto.
- Oh, ragazzi che c’è stamane? Mi sembrate un po’ troppo agitati! È tutto pronto?
- Sì don Aldo…libri, campanella, calice e ciotola. Rispose svelto il più grande.
- Ci sono tanti uomini nel coro, come se fosse festa grande, eh don Aldo? Chiese cantilenando il piccolino.
- Farà troppo freddo fuori sul sagrato… rispose il don sorridendo.
- No, la mamma ha detto che se la Madonna è venuta a trovarvi vuol dire o che siete proprio un gran peccatore o che siete un santo e che quindi è meglio venire ad ascoltarvi e ha detto al papà che era meglio che entrasse anche lui invece di parlare delle vigne fuori con gli altri. Che qualcosa di buono lo poteva, forse, imparare. Ma voi siete un santo, don Aldo?
- No Sandrino, non sono un santo. Dai sistematevi che iniziamo!

L’omelia fu più faticosa del solito. Le parole sfuggivano e non riusciva a trovare gli esempi giusti. Aprì gli occhi e abbasso lo sguardo verso le parrocchiane. Aspettavano.
Lo guardavano incuriosite e si aspettavano da lui chissà quale parola salvifica.
Cosa stava succedendo alla sua parrocchia sonnacchiosa?
Vicino all’altare di S.Michele, seduta in seconda fila, c’era la giovane donna della benedizione, gli sorrideva e stringeva tra le braccia forti un fagotto da cui spuntava una piccola testina. 

Finita la messa, fuori dalla porticina verde c’era un piccolo gruppo di donne e un omone con un cappello in mano. Ebbe la tentazione di rientrare in fretta in chiesa e di nascondersi dietro il coro ma lo avevano ben visto e i loro occhi erano carichi di una strana espressione, un misto di attesa, paura, rispetto. 
Avevano problemi diversi ma tutti legati alla salute loro o di qualcuno restato a casa sdraiato in un letto. Tutti avevano portato un indumento o un oggetto. L’omone chiese di benedire una tazza.

Quel pomeriggio don Aldo non passò dal bar e decise invece di ritornare alla piccola edicola dove aveva avuto “l’incidente” e  da dove non era più passato. Camminò piano come se cercasse di rimandare l’incontro. Nell’angusto spiazzo erboso, l’edicola si ergeva piccola e dignitosa. Unica novità, rispetto al solito, una colorata raccolta di mazzolini, composti di fiori tardivi e foglie di castagno, allegramente accatastata  sul ripiano dell’edicola a nascondere quasi  la figura della Vergine. Si avvicinò e appoggiò la mano al tetto del tabernacolo. Freddo. Cosa si aspettava?
 Non si ricordava niente di quel giorno, era stato Fosco a raccontargli di averlo visto passare sul sentiero, di aver sentito un grido e le frasi strane che aveva detto risvegliandosi. Lui non si ricordava nemmeno perché era andato da quelle parti. Non aveva parrocchiani da andare a trovare quel giorno, non aveva niente da fare in quella parte del paese mentre aveva invece disertato stranamente un appuntamento con le parrocchiane per il piccolo coro. 
Lui non ricordava niente.
Si accovacciò davanti all’immagine e spostò delicatamente i fiori per guardare in volto la Madonna. 
Il pittore aveva dipinto frettolosamente il vestito e il velo che ricadeva in grosse pieghe pesanti e irreali. Anche il bimbo che teneva in braccio non era stato ben dipinto e il piccolo volto paffuto era leggermente asimmetrico, sgraziato. Entrambi guardavano intensamente dritto davanti ed entrambi non sorridevano. Il viso della Vergine era invece straordinariamente proporzionato e delicato. Gli occhi erano intensi e cercavano un dialogo con gli occhi di chi guardava. Forse erano stati due artisti a dipingere, un maestro e un allievo, forse. Don Aldo sorrise. Non si era mai soffermato molto davanti al tabernacolo. Era fuori dai soliti percorsi, non faceva parte di nessuna processione e nemmeno nel mese di maggio era un punto di preghiera.
Si lasciò catturare dagli occhi della Vergine e si mise a pregare.

Faceva quasi buio quando don Aldo, infreddolito, spinse la porta di casa. Era affamato e stanco. Si tolse il mantello e lo appoggiò sulla sedia, unico arredo della stretta entrata. La perpetua gli aveva lasciato la cena sul tavolo della cucina e il camino era acceso. Chiuse la porta della piccola cucina per scaldarsi, aveva mani e piedi gelati. Si sedette e si fece il segno della croce prima di toccare il pane. Nella stanza c’era odore di fumo e di minestrone.
Si versò un bicchiere di vino. Era un vino scuro, acido e che gli faceva venire un noioso bruciore allo stomaco ma lo confortava e gli riempiva la bocca e il cuore. 
Dopo tre cucchiai di minestra e due bicchieri di vino, quando un certo benessere incominciava ad infiltrarsi nelle ossa fu spaventato da colpi fortissimi dati alla sua porta.
- Don Aldo! Don Aldo!
La porta della cucina si spalancò e Fosco entrò stravolto.
- Don Aldo…Renata!
...
Continua


mercoledì 29 luglio 2015

Una carriera stroncata sul nascere.

Allora, avevo preparato un raccontino, una robetta quasi scolastica, una provina per iniziare e per scaldarmi. Volevo partecipare ad un concorso letterario, un concorsino, di nicchia, per rompere il ghiaccio. In questo ultimo mese l'ho letto, riletto, ho tagliato ma soprattutto aggiunto, mi pareva troppo corto, troppo semplice, poco strutturato e avrei voluto aggiungere personaggi e avventure ma poi mi dicevo, non esagerare, va bene così, sarà un raccontino.
Ieri sera, con uno Scettico stanchissimo, affronto i miei problemi amministrativi di iscrizione: versamento, come, dove, quante copie, formato, che pure quello era un problema, scheda, motivazione.
Lo Scettico, con la palpebra in calo e in tutto relax, chiede:
- Quante battute?
- Max 8000.
- Le hai contate?
- A parte che non so come si fa ma sono ampiamente sotto, non è un problema...
Lo Scettico smanetta sul suo portatile mentre io, penna e calamaio, mi applico sulla motivazione che deve essere di tot righe per lato al quadrato, interlinea 1.
- Sei a più di 40000 battute, senza il titolo. Con l'introduzione e la fine sei a 8600? Invio?
Adesso, ditemi voi e se qualcuno avesse bloccato Louisa May Alcott per il numero di battute dei suoi primi racconti, io cosa leggevo da bimba?
Raccontino bocciato, concorso chiuso.
Passo direttamente alla categoria romanzo.


lunedì 27 luglio 2015

Che...

Detroit è colore.
 Colore che maschera il grigio, colore che copre crepe e spazi e buchi. Questo colore che, come cerone, trasforma un uomo in artista e un pagliaccio in un filosofo.
Detroit è odore di bruciato che poi diventa profumo di cibo che cuoce, sono voci che gridano e che si raccontano, trasformandosi in musica per non  gridare più forte e non mutarsi in protesta.
Detroit è una linea sottile tra il baratro e il cielo.
Detroit è un sorriso stanco che si mette il rossetto.

Questa città, che si sta tatuando per non dimenticare e per trasformarsi, mi incanta.


























lunedì 20 luglio 2015

"Perchè semplice è l'amore e le semplici cose se le divora il tempo!"

I piccoli regali della vita sono nascosi tra le cose semplici.
Sono quelle cose che compongono la nostra quotidianità e che se non siamo attenti rischiamo di sottovalutare e in un certo senso di perdere.
I colori delle cose che ci circondano, i verdi e gli azzurri ad esempio, che sono come un complesso vitaminico, i gialli e gli arancio che ti fanno caldo, i viola che ti danno un pizzico di malinconia.
 Il tuo cane che cammina piano piano con fatica ma che non rinuncia mai ad andare fino al torrente, i tuoi fiori che si rimpinzano di acqua e si aprono piano, gli scoiattoli, con le codine come antenne, che corrono lungo i bordi delle case, camminare con i piedi quasi scalzi e sentire la polvere tra le dita, guardare una vecchia signora suonare le maracas in un parco da sola e pensarla in una grande orchestra dove  probabilmente si sta immaginando anche lei e sorriderle ricevendo il più bel sorriso della giornata.
 Incontrare la buffa coppia di vecchi cinesi che camminano piano, lui davanti con un annaffiatoio e lei con un grande cappello legato stretto sotto il mento che lo segue con un sacchetto, che vorrei proprio sapere cosa contiene.
Alzare gli occhi e guardare un aereo altissimo e pensare che tra poco volerai dai ragazzi e sentire salire le lacrime di gioia.
I momenti preziosi della vita sono brevi respiri, sono brezze passeggere che ti accarezzano un istante e volano via.
Sono le lucciole ieri sera, l'odore delle candele, il grande carro che sembra riempire il cielo, è ritrovarsi negli occhi e nei sogni di ragazzi splendidi che ti regalano energia, è pedalare vicino allo Scettico e sentirne i pensieri, è addormentarsi e sognare di essere ad un ballo in maschera.
Tanti anni fa qualcuno mi disse che ero una semplice, per un attimo pensai che avrei dovuto offendermi, oggi, penso che è il più bel complimento che ho mai ricevuto.




giovedì 16 luglio 2015

Il mio Dr House italiano

Ho incontrato e conosciuto la malattia che ero molto piccola, non sulla mia pelle per fortuna ma vicina, così vicina da poterla toccare, annusare, illudermi che si lasciasse ammaestrare.
 Ho passato tante ore a fianco di persone malate e di sponda ho visto e parlato con tanti medici. Sono abituata a leggere tra le righe quando i medici parlano, contratto sulle quantità di medicine dispensate come se fossi nel suk di Aleppo, chiedo spiegazioni dettagliate e pongo quesiti biblici.
 Lo Scettico, nemmeno dirlo, è l'esatto contrario. Partendo dal principio che "se lo dice il medico" va tutto bene, non discute e ubbidisce alla lettera. Nei riguardi della categoria ha lo stesso modus operandi di un prete verso i tre consigli evangelici e non discute, mai.
Averlo come traduttore dal medico mi mette una certa ansia, le traduzioni dello Scettico delle mie lunghe e articolate domande sono stranamente corte e sintetiche, poste con un 'espressione dubbiosa e la traduzione delle risposte è ancora più standardizzata:
- Ha detto che devi fare così! Ha detto che devi prenderle 'ste medicine! Dai Mìgola, fidati!
Durante la nostra ultima gitarella al pronto soccorso per la vespa suscettibile ho avuto la netta sensazione che tutto stesse prendendo una piega esagerata riguardo il quantitativo di farmaci che mi venivano prescritti e somministrati per via forzosa. Alla voce" antibiotico in dosi da cavallo per una intera era geologica" ho timidamente chiesto, in autonomia, se era proprio indispensabile, vista anche la mia predisposizione allergica agli antibiotici. Gli occhi dello Scettico, alle spalle del Dr House, erano chiari come un pannello esplicativo per analfabeti funzionali: NON INCOMINCIARE!
Mi sono ripetuta come un mantra che probabilmente dovevo fidarmi, che se fanno tutti questi telefilm sugli ospedali americani ci sarà un perché, che in fondo la sanità americana è ancora l'ultima speranza di tanti casi disperati, che il corpo cambia, che devo essere più accondiscendente, che...
Finita la boccetta di antibiotico eccomi qui coperta dalla testa ai piedi e vorrei ripetere "dalla testa ai piedi" da una monumentale orticaria gigante. Sembra che mi sia venuto il morbillo, la varicella, la scarlattina, la rosolia, la quinta e la sesta malattia tutte insieme. Voilà.
Questa volta però, galeotto un viaggio di lavoro improrogabile, mi sgancio dallo Scettico e mi fiondo da un medico italianissimo, trovato grazie al giro di amici italianissimi.
Riporto qui una parte del dialogo:
- Ma che antibiotico le hanno dato?
Tiro fuori dalla borsetta la bottiglietta da  pozione da stregoni, 'chè qui un blister è ormai un vago ricordo, e gliela porgo.
- Ma lei non è allergica alla penicillina?
- Sì!
- Questo è un cuginetto buono della penicillina...
Penso con tenerezza allo Scettico e alle sue frettolose spiegazioni, con astio a tutti i Dr Shepherd che ci hanno rimbecillito nei confronti della categoria medica...
- Bene. E adesso?
- Adesso facciamo una puntura di, poi mi prende duecento milligrammi di...
- Parliamone...
Sono uscita con il minimo sindacale di medicinali, con tutte le spiegazioni possibili ed immaginabili e un medico di famiglia tutto nuovo di zecca.
Per farvi capire quanto sono bellina, oggi, il tecnico della caldaia non ha allungato la mano per il solito cordiale saluto e mi pare pure che tenesse una certa distanza di sicurezza...

sabato 11 luglio 2015

Buon compleanno, Cucciolo

Il mio amore per te ha il profumo della colazione fatta senza limiti,
chiesta, in un sussurro, la mattina prestissimo, storpiandone il nome.
Il mio amore per te ha il colore dei cartoni animati, guardati in tutte le lingue,
il mio amore per te ha il profumo del latte.
Appiccicoso come i biscotti dimenticati nella manina calda,
morbido e rosa come la tua pelle in quel lontano mese di luglio, è il mio amore.
Il mio amore per te ha il sorriso asimmetrico con cui mi saluti nelle foto di oggi e il sorriso spensierato in cui sei uno Zorro, ieri.
Un amore nato con un abbraccio viscido e umido in una stanza piena di sole e di gente,
un amore che si continua a nutrire di abbracci e non  ne è mai sazio.
Amore di braccia, di mani, occhi, capelli,
amore in una voce ascoltata con orecchie attente per cogliere sfumature.
Amore che vola sopra gli oceani con l'orologio sotto gli occhi
e conta le miglia alla rovescia e gli stati che scorrono sotto.
Il mio amore per te è una sedia dove sedersi per capire,
è scoprire che ci sono spigoli che non avevo ancora accarezzato
e resistere alla tentazione di spianarli scambiandoli per brutte pieghe.
Il mio amore per te è respiro in libero fluire, è corsa in montagna su scorze profumate, è fiato affannoso, è aria pura.
Festeggeremo insieme tra qualche giorno ma per ora, Buon Compleanno, Cucciolo.