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martedì 26 maggio 2015

Il garage americano

Qui i garage sono sempre aperti. A volte, quando ci sono meno venti gradi, li chiudono per non avere lo spifferino in cucina ma normalmente il garage americano resta aperto dalle sei di mattina fino a sera.
Il garage americano rigurgita di oggetti, di attrezzi, di decorazioni, biciclette, macchine movimento terra, bandiere ed ogni possibile utensile che possa diventare utile in caso di catastrofe naturale. Quando sono proprio strapieni che nemmeno il soppalco del soppalco risolve la situazione, allora arriva il garage sale: il garage è aperto come gli altri giorni ma alcune cose te le puoi portare via per pochi dollari. I più pigri non fanno nemmeno la giornata di vendita e mettono direttamente sul marciapiede quello che proprio non ci entra più in garage e te lo puoi portare a casa free.
Il reparto decorazioni di un garage medio americano potrebbe tranquillamente tener testa ad un negozio cinese di una qualunque città di provincia italiana. Decorazioni per ogni occasione e per ogni stagione che si alternano con velocità e precisione. Le luci e le decorazioni di Natale sono appena state spente che ti ritrovi in un tripudio di cuoricini, giri l'occhio e sei circondata da conigli giganti, ti sposti, facendo attenzione alle uova sparse ovunque e sei in un un mondo blu, rosso e bianco dal Memorial Day ai primi di Luglio e poi è un attimo che ti devi difendere dai tacchini.
I garage sono  la parte arcaica della casa americana, qui è conservato e coccolato il loro spirito pionieristico e qui ammucchiano e conservano tutto quello che potrebbe un giorno salvarli da una esperienza post apocalittica. I più organizzati hanno generatori autonomi degni della nostra protezione civile, depuratori per acqua piovana, frigoriferi ad energia solare, taniche di ogni dimensione.
Vicino alle decorazioni, in genere, c'è il reparto giardinaggio che merita una visita a parte: trattorini per l'erba, lame inquietanti per le rifiniture dei bordi, decespugliatori, estirpatori, frangizolle, trappole giganti per spostare animali fastidiosi e una varietà indescrivibile di prodotti chimici anti tutto. Perché  gli americani amano talmente il loro giardino che non tollerano assolutamente che qualche cosa possa disturbare la perfezione dell' oggetto amato quindi guerra alle erbacce, ai parassiti, alle talpe, alle lumache, agli scoiattoli, orsetti lavatori, volpi, armadilli e opossum e cervi, che stavo per dimenticare.
Proprio ieri interravo felice, di fronte a casa, una serie di piante dal nome impronunciabile quando John Wayne, il mio vicino preferito, esce preoccupato e mi dice che ho scelto proprio delle piante che i cervi amano. Urca, penso io. Già, pensa lui. Scuote la testa ed entra nel suo sancta sanctorum, ne esce con un sacchetto che tiene a braccio teso ben lontano dal naso, mi sorride e incomincia a spargere generosamente granuletti puzzolenti tutto intorno alle mie piante. Una barriera anti cervo come si deve. Con il pollicione sollevato sottolinea, a lavoro finito, che qui nessuna bocca famelica si fermerà. Ok John, thanksyouverymuch ma penso comunque che le piantine moriranno prima da sole perché  con questa puzza tremenda io non ci metto più piede ad annaffiarle, grazie John!









domenica 24 maggio 2015

La stanza dei ranuncoli

Quanto mi manca la mia guerriera.

Quando scende la sera, ancora adesso a distanza di anni, mi viene voglia di prendere il telefono per raccontarle la mia giornata, le nuove amicizie, i miei piccoli successi, le cose banali, le vite dei suoi adorati nipoti, le battute dello Scettico.
Per mesi, dopo la sua partenza, mi  sono spesso ritrovata con il telefono tra le mani e un nodo in gola. Ancora adesso, dopo quattro anni, mi è rimasto un piccolo corto circuito, in un angolino della mente,  che si attiva con l'arrivo del buio.
A volte ho voglia di farle dei disegni, come quelli che fanno i bambini quando sono lontani, in viaggio con la scuola, ma poi penso che non ho più l'età per fare disegnini e soprattutto che non ho più un indirizzo dove spedirglieli.
Ho tanti ricordi che si srotolano nella mente e tanti altri non vorrei averli persi ma forse persi non sono e chissà che un giorno non si possano aprire dei cassettini e possa godermi ricordi nuovi.
Tra i tanti ricordi, forse i più  teneri sono quelli più recenti, i più dolorosi al tempo stesso perché legati alle serate passate lei ed io, sole, nella stanza dei ranuncoli.
Quando tutti erano partiti, anche gli ultimi irriducibili e noi due fabbricavamo i nostri riti propiziatori per la notte, riti al profumo di camomilla che speravano di blandire il dolore.
 Un'intimità che cercava di essere normale e casalinga in un luogo di frontiera. La crema sulle mani, la camomilla calda sul comodino, il controllo dei tubicini , la posizione giusta del letto, non troppo bassa la testa, per poter respirare, un po' più alti i piedi,  per inseguire un equilibrio leggero che permettesse al riposo chimico di essere dolce, se possibile.
-Adesso provo a dormire, tu cosa fai?
-Vado a ballare...tu non lo sai perché vi riempiono di calmanti ma, quando tutti finalmente dormite, qui si scatena la festa.
-Va là stupidota, intendevo, leggi o dormi?
- Gelosa della festa eh? Leggo un pochino.
Chiudeva gli occhi come fanno i bambini quando gli dici che la storia è finita e vogliono convincersi che il sonno arriverà subito e subito arriverà il mattino, perché la notte è troppo lunga e un po' fa paura. Ferma, immobile, alla ricerca dell'equilibrio come un monaco tibetano.
Quando pensavi che finalmente era scivolata in un torpore senza dolore e ringraziavi mentalmente tutte le divinità, capendo perfettamente perché il laudano lo avevano chiamato così, sentivi una voce chiara e sveglia che ti chiedeva:
- Cosa stai leggendo di bello?
Perché, se la notte faceva paura, ancora di più faceva paura smettere di raccontarci, perché il tempo era troppo poco e lei lo sapeva.
E nei racconti delle trame dei libri, che io leggevo e che lei ormai faceva fatica a leggere, c'erano nascoste le nostre parole pesanti, quelle difficili da dire, quelle che escono sempre dopo e invece andrebbero dette prima, senza pudore. Alla fine del racconto sorrideva.
-Mi piace. Adesso dormo.

Quanto mi manca la mia guerriera.



giovedì 21 maggio 2015

Inviato normale in territorio incasinato



Attraverso conoscenze di conoscenze, amici di amici fidati, finalmente ho il mio infiltrato inviato Expo di fiducia.
Da oggi, con cadenza "ritienti- fortunata- quando- il pezzo- arriva", sono onorata di ospitare, qui sul blog, una piccola rubrica dedicata alla vita vera dentro l'Esposizione Universale di Milano 2015.
Volete sapere cosa succede all'ombra dei padiglioni, nelle cucine del Qatar, nella lavanderia del Principato di Monaco? Siete curiosi di scoprire i retroscena segreti della vita notturna di Expo, tra camion e controlli di sicurezza? 
Da leggere senza moderazione. 




Capitolo Uno: Danger! Man maybe at work!

Expo è finalmente cominciata, dopo un periodo di gestazione durato otto anni, ha finalmente aperto le porte ai media e al pubblico. 

Ma che sofferenza.

Aver lavorato durante la fase di costruzione di Expo è come aver fatto la guerra del Vietnam qui nel microcosmo fieristico. 

I pochi veterani che sono rimasti, una volta finiti i lavori, si ritrovano nei bar desolati, spersi tra il padiglione colombiano e quello russo a bere vodka e mojito e ad insultare i malcapitati  visitatori ricordandogli quanto sono fortunati, loro,  ad essere arrivati dopo l’apertura, dopo i lavori, dopo…

Sì perché prima non era necessario apparire presentabili al mondo e in questo immenso cantiere è successo proprio di tutto. Non c’erano visitatori paganti ed esigenti quindi il sistema di entrata, di accrediti e di controlli di sicurezza erano gradevoli e piacevoli come sbattersi il ditone del piede sul bordo del letto.
Per capire il sistema di accrediti ed ottenere un pass per entrare era necessario avere un master in comunicazione ed informatica. 

Regolarissime e puntuali erano invece  le interminabili code per entrare.
Le navette, che erano in teoria il modo “veloce” per spostarsi e raggiungere i padiglioni in costruzione, arrivavano a orario svariato, seguendo l’oroscopo e l’umore dell’autista. 

 Moltissimi  infatti erano i camminatori che con pazienza e coraggio, come in un alternativo pellegrinaggio verso Santiago, camminavano, dai venti minuti ai sei anni, per raggiungere il posto di lavoro.


Una volta entrato scoprivi un mondo a parte,  multiculturale e dai paradossi estremi. Le società di costruzioni erano per la maggior parte straniere, molti paesi hanno direttamente importato le loro società edili e di conseguenza i loro modi di lavorare. 
Per esempio: se nel cantiere inglese non si entrava assolutamente senza scarpe anti-infortunistiche ed elmetto, in Qatar il costume da bagno e le infradito erano adatti e vivamente consigliati per passeggiare nel cantiere.
 Gli Svizzeri avrebbero potuto aprire due settimane prima, la Turchia ha finito i lavori la mattina dell’apertura, i tedeschi, che erano inizialmente in anticipo, non avevano considerato che il Kuwait,  suo vicino di Expo, avrebbe scaricato tonnellate di sabbia nel proprio padiglione riempiendo i germanici di polvere (con grande godimento di tutti i padiglioni latini in ritardo). 

Alla fine erano tutti in ritardo e nelle ultime tre settimane si è vissuto in un stato di panico globale. I ritmi aumentavano, i primi fornitori di attrezzature cercavano di capirci qualcosa e di entrare in Expo (debuttanti), i primi giornalisti arrivavano e ripartivano subito perché tanto non c’era ancora niente da riprendere, le autorità si svegliavano e chiedevano documenti vari ed eventuali, si camuffavano i lavori che  non si sarebbero riusciti a finire e finalmente si parlava dell’apertura.

Alla fine ad aprire ci sono riusciti quasi tutti i padiglioni e malgrado molte perplessità Expo è  bella ed interessante. Non è ancora una macchina perfetta, ci sono  problemi e complessità, però, come dicono i veterani tra uno shot e l’altro…”avresti dovuto vedere prima…”

 Inviato normale in territorio incasinato.


Per tutelare la privacy dell' infiltrato inviato ma soprattutto  per aumentare l'audience della rubrica, l'identità rimarrà segreta.









martedì 19 maggio 2015

Tanti cari saluti...

Si sa che i mariti si annoiano quando il sabato fanno compere con le mogli.
 Mentono spudoratamente mentre, con occhi da cane di S. Bernardo davanti alla ciotola del cibo vuota, ti dicono: bella idea, andare a comperare fiori per il giardino!
Inseriscono il pilota automatico e mettono i neuroni in modalità riposo, con lucina ecocompatibile, dalle nove del mattino del sabato fino alla domenica sera.
Ed è esattamente così  che Sabato scorso ho passeggiato lo Scettico in un enorme vivaio.
Un bello-bello davanti ai gerani, un mmh-mmh vicino alle peonie, un entusiastico sipuòfare al cospetto degli iris. Dopo una buona oretta, soddisfatti e felici delle nostre scelte, ci dirigiamo finalmente  alle casse.
 La cassiera, come da copione, si rende immediatamente conto che non siamo autoctoni:
-Spagnoli?
-Italiani.
Sorriso.
-Di dove?
Lo Scettico si accende.
-Una piccola città vicino a Bologna ( formula ormai consolidata dello Scettico per provocare un barlume di conoscenza nell'interlocutore americano).
Sorriso più aperto.
Quale?
Lo Scettico alza gli occhi dai vasi di peonie.
-Ferrara.
-WoW! Mio marito è di Cocomaro di Focomorto!
A questo punto parte chiaramente la classica rimpatriata da migranti, anche se la signora in questione è americanissima ma, a quanto pare, ferrarese nel cuore, per sempre.
 Le peonie giacciono ormai abbandonate in fondo al carrello, pericolosamente addosso ai gerani che gemono. Rimpiazzo lo Scettico nel trasbordo della mercanzia e ascolto con un orecchio la triste storia del marito della cassiera che, dopo una bella avventura di migrazione felice da Cocomaro alle pianure del Michigan, che sempre pianura è ma senza zanzare, mi va a morire giovanissimo in un hotel in Germania dove si trovava per lavoro, "ma le assicuro che era sanissimo".
 Convenevoli sulla cucina italiana e promesse di ritornare presto in terra estense.
Finalmente la carta di credito scivola decisa nella macchinetta mettendo il punto esclamativo alla rimembranza.
Lo Scettico si allarga nei saluti finali, dimentico della modalità standby che si era reinserita in automatico.
-Arrivederci. Mi saluti il marito!

venerdì 8 maggio 2015

Io sono una donna

Io sono una donna. Sono bianca, a parte le macchie di vecchiaia che incominciano a colonizzare mani e viso.
 Ho occhi azzurri che mi hanno sicuramente regalato piccole opportunità che forse non avrei avuto con occhi meno appariscenti. Gli occhi azzurri sono assolutamente sopravvalutati, credetemi.
Ho i capelli ricci e quelli invece sono una gran cosa, ti fanno risparmiare lunghe ore di parrucchiere e di spazzole torturatrici, certo bisogna saper convivere con un certo stile bohémien o slandrone come avrebbe detto a questo punto mia madre.
Sono stata una bimba paurosa e una lettrice bulimica, ballerina improvvisata, sciatrice passionale e roccambolesca.
Quando ero adolescente facevo moltissima attenzione a come camminavo, convinta che la gente, per strada osservasse i miei passi ma non amavo comunque prendere l'autobus e quindi facevo chilometri, con autocontrollo della postura, per andare a scuola. Mentre comminavo, per passare il tempo, trasformavo le cose e le persone che vedevo in storie, raccontate in terza persona, come nei romanzi di cui mi ingozzavo la notte, fino alle due o alle tre. Leggevo con la mano sull'interruttore della luce, pronta al minimo rumore, come un pistolero. Se qualcuno si alzava, per andare in bagno, spegnevo accompagnando il pulsantino lentamente, per evitare anche il ridicolo clic, mi infilavo in fretta sotto le coperte, con il libro aperto, per non perdere il segno, attaccato alla pancia. Molte volte mi sono ritrovata così la mattina, con i libri come panciere, come borse dell'acqua calda. Parole tenute al caldo, meditate visceralmente.
Con la matematica ero invece un disastro. I numeri, al contrario delle lettere, mi avevano dichiarato guerra fin dalla prima elementare. Per farmi dispetto si chiudevano in un mutismo antipatico e quando dovevo fare qualche calcolo mentale c'era un silenzio irreale in testa, un vuoto desolato che si trasformava in panico mentre scorrevano i minuti. Le tabelline erano un vero incubo e al maschietto odioso del primo banco, che alzava la mano mentre io cercavo un numero credibile da dire alla maestra, sottovoce profetizzavo: vedrai domani al tema, spia. Tanto il tuo tema non lo legge mai la maestra.
Ho sempre amato ridere, eppure il mio punto debole erano proprio i denti, troppo grandi e con la gengiva che sembrava volersi divertire proprio come me e si mostrava, incontrollabile. Ricordo che mia nonna aveva un rimedio, diceva, bisogna massaggiare il labbro superiore partendo da sotto il naso e scendendo lentamente. Non ho mai capito se questo dovesse servire per allungare il labbro e renderlo quindi più pesante e quindi più difficilmente rialzabile o se servisse alle terminazioni nervose, che so, per renderle più consapevolie quindi più facilmente controllabili, per un sorriso più contenuto. Insieme facevamo la ginnastica per il labbro per lunghissimi minuti e lei mi raccomandava di farla anche la sera, prima di dormire. Io non l'ho mai fatto perché avevo paura che il labbro superiore diventasse come quello di un cammello che avevo visto al circo e sinceramente preferivo tenermi la mia gengiva sfacciata che avere un labbrone pesante. E intanto continuavo a ridere.
Io sono una donna. Adesso leggo molto meno perché lo Scettico sboffonchia, si gira teatralmente, urta involontariamente il libro con il braccio, si scusa e dice: no, no, leggi pure.
Vorrei ogni tanto mettermi ancora il libro sulla pancia ma si sa che invecchiando il sonno diventa più leggero e mi ritroverei con gli angoli della copertina nelle costole senza riuscire a meditare visceralmente o peggio ancora, potrei ritrovare il libro sotto lo Scettico, come uno spessore,  come quelli per gli armadi per tenerli dritti e far scorrere le ante. Allora metto via gli odiati occhiali da lettura, chiudo il libro con il segnalibro che mi ha regalato il Tecnico, con la capra in giada che spenzola e che, immancabilmente, urta il vetro del comodino facendo un rumore esagerato nel silenzio della notte e spengo la luce, facendo comunque attenzione al clic dell'interruttore.
Io sono una donna.


lunedì 4 maggio 2015

Buon compleanno, Maresciallo.

Ieri era il suo compleanno e questa notte, puntuale è venuta a trovarmi. Bella come sempre, profumata e curatissima, attiva e piena di energia, come sempre.
Mi organizzava un viaggio tra una tormenta di neve e uno sciopero di taxi senza innervosirsi e preoccupandosi di trovare soluzioni alternative, mi affidava la sua cagnolina perché, dove stava andando lei, non poteva portarla.
Avrei voluto dirle quanto ci manca ma era di corsa e poco propensa alle smancerie, presa da problemi di valige e di trasporti. Avevamo due destinazioni diverse.
Non le ho nemmeno chiesto dove andava, soggiogata dalla frenesia dei suoi preparativi, eseguivo solo le sue direttive.
Con lei era così, con il Maresciallo, come la chiamava papà, non si discuteva, bisognava tenere il ritmo e non perdere tempo.
Mi sarebbe piaciuto abbracciarla forte e raccontarle le ultime cose, farla ridere dei racconti del Tecnico e sussurrarle le giornate di Cucciolo ma era solo un sogno ed io i miei sogni mica li controllo, purtroppo...
Come sempre c'è un senso di vuoto e di impotenza al risveglio e la voglia di richiudere gli occhi, di rituffarsi nel sogno sapendo che è impossibile, che è tutto finito, che puoi solo raccontartelo per cercare di non dimenticarlo nel tragitto letto-cucina, sapendo che appena lascerai il tepore del letto la magia delle sensazioni svanirà e che più ti sforzerai di raccontarle allo Scettico più suoneranno vuote e scialbe.
D'altronde raccontare i sogni allo Scettico è un po' come scrivere che hai visto un ufo sul sito del Disinformatico o spedire una foto con fantasma a Nature e aspettarsi che ne facciano un articolo.
Volevo almeno dirti buon compleanno, mamma.
Buon viaggio.